SOS deontologia

Sottoponi dubbi etici e deontologici per semplificare il dialogo tra l’Ordine e i professionisti.

La Commissione Etica e Deontologia ha creato un form tramite il quale potrete sottoporci dubbi e/o questioni etiche e deontologiche, anche per facilitare e semplificare il confronto e la comunicazione fra l’Ordine e i professionisti.

Sarà nostra cura analizzare i vostri quesiti e, se necessario, richiedere una consulenza all’avv. Massimiliano Gioncada.

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Domanda: È possibile lo scambio del numero di cellulare privato con un cittadino preso in carico? Es: assistente sociale (assunto nel pubblico) condivide il proprio numero privato con un cittadino (preso in carico) e c’è uno scambio di messaggi legati al lavoro. La modalità di comunicazione aziendale prevede un telefono fisso di servizio con il quale effettuare le telefonate (non c’è il cellulare di servizio).

Risposta: Il caso che ci sottoponi è strettamente legato all’Art. 20 del nostro Codice Deontologico, che riporta: “l’assistente sociale riconosce i confini tra vita privata e professionale ed evita commistioni che possano interferire con l’attività professionale o arrecare danno all’immagine della professione. Non intrattiene relazioni di natura sentimentale o sessuale con i destinatari degli interventi cui sia preposto o comunque coinvolto in senso lato”.

Ha inoltre a che vedere con eventuali direttive datoriali, ovvero con ciò che prevede in merito il proprio datore di lavoro. Il comportamento potrebbe essere neutro, in sé, si tratta di comprendere se perde detta neutralità in relazione al contesto, ma, questa, è valutazione discrezionale di merito.

Domanda: Ho segnalato al mio responsabile di essere stata oggetto di minacce di morte indirette ad opera di un mio assistito e ho chiesto di essere sollevata dall’incarico (art.53CD). Non ho ricevuto alcuna risposta scritta ma il mio stesso responsabile mi ha detto oralmente che d’ora in poi vedrò questa persona a colloquio accompagnata da lui. 

Risposta: “L’art. 53 del vigente Codice deontologico così stabilisce “L’assistente sociale chiede al proprio datore di lavoro, con istanza motivata, di essere sollevato dall’incarico, fornendo ogni elemento utile alla continuità del processo di aiuto, nel caso in cui l’interesse prevalente della persona lo esiga o quando, per gravi motivi, venga meno la relazione di fiducia o, ancora, qualora sussista un grave rischio per l’incolumità del professionista”.

La segnalazione al Responsabile di servizio va fatta per iscritto.

Il Codice deontologico non vincola l’amministrazione nelle proprie decisioni: l’amministrazione, infatti, non è direttamente tenuta al rispetto del Codice Deontologico, anche se deve mettere il Professionista nelle condizioni di rispettarlo. Quindi, da questo punto di vista, quella che pare essere la posizione del Responsabile di servizio è insindacabile sotto il profilo della legittimità, e ancor di più sotto il profilo deontologico.

Resta il fatto che a fronte delle minacce ricevute, emergono profili evidenti di “inopportunità” dell’attività professionale di quell’assistente sociale, e di questo, ragionevolmente, avrebbe dovuto tener conto il Responsabile.

Va da sé che l’eventuale denuncia all’Autorità giudiziaria o alle Forze di Polizia spetta all’assistente sociale personalmente, poiché essa è la parte offesa (e non l’amministrazione).

Quindi l’assistente sociale dovrà valutare autonomamente se procedervi o meno. A fronte della presentazione di una denuncia l’assistente sociale non potrebbe più, nemmeno accompagnata, essere titolare del caso.

È auspicabile un ripensamento da parte del Responsabile, ma se ciò non dovesse avvenire, resta ben poco da fare, poiché nemmeno una nota in tal senso da parte dell’Ordine lo vincola.

Domanda: Una famiglia chiede al Servizio copia di alcuni documenti quali verbali di incontri ed e-mail ricevute per conoscenza; dagli incontri svolti con i vari componenti del nucleo, abbiamo avuto la percezione di una forte conflittualità intrafamiliare. Per tale ragione chiediamo una vostra consulenza da un punto di vista tecnico-legale e deontologico al fine di porci in una posizione equidistante nella diatriba in essere. 

Risposta: Dal parere legale emerge che, a livello generale, il procedimento di accesso ai documenti amministrativi è uno dei più complessi in assoluto, stante l’evidente contenuto misto, obbligatorio e discrezionale. In assenza di elementi documentali (l’istanza, i termini già decorsi, la conoscenza dei documenti al fine di individuare eventuali controinteressati in senso formale o sostanziale, ecc.) risulta difficoltoso fornire indicazioni precise e specifiche su un caso concreto. Stante ciò, si rimane quindi disponibili ad un approfondimento della richiesta per provare a fornire una risposta esaustiva. Per completezza, sempre a livello generico, se il Servizio sociale si trova in difficoltà, può chiedere al Segretario generale di gestire il procedimento.

Domanda: quando una persona (ad esempio una persona anziana) si rifiuta di essere aiutata da un assistente Sociale nonostante le sue problematiche e il bisogno di un intervento sia evidente, come deve comportarsi l’assistente sociale?

Risposta: Nella situazione che ci sottoponi il Codice Deontologico è un ottimo strumento per fare una valutazione, orientare l’azione e discernere le scelte da prendere. 

L’assistente sociale ha il dovere di riconoscere l’autodeterminazione delle persone, come recita l’art. 26 del Codice Deontologico: “l’assistente sociale riconosce la persona come soggetto capace di autodeterminarsi e di agire attivamente; impegna la propria competenza per instaurare una relazione di fiducia e per promuovere le potenzialità, l’autonomia e il diritto della persona ad assumere le proprie scelte e decisioni, nel rispetto dei diritti e degli interessi legittimi degli altri.” Inoltre, l’art. 8 recita “l’assistente sociale riconosce la centralità e l’unicità della persona in ogni intervento; considera ogni individuo anche dal punto di vista biologico, psicologico, sociale, culturale e spirituale, in rapporto al suo contesto di vita e di relazione.”

Il Codice Deontologico disciplina anche l’eventualità in cui l’assistente sociale si trovi a lavorare con persone che non riescono ad esprimere la propria autodeterminazione e a dare una lettura dei propri bisogni, come infatti definito nell’art. 27 che recita: “l’assistente sociale riconosce che la capacità di autodeterminarsi della persona può essere ridotta a causa di condizioni individuali, socio-culturali, ambientali o giuridiche. In queste situazioni, promuove le condizioni per raggiungere il miglior grado di autodeterminazione possibile e, quando ciò non sia realizzabile, si adopera per l’adeguata segnalazione all’Autorità Giudiziaria, affinché siano attivati gli opportuni interventi di protezione e di tutela.” Anche nel momento in cui risulti necessaria una segnalazione all’Autorità Giudiziaria risulta importante, se vi sono le condizioni di tutela e protezione, che “l’assistente sociale inform[i] i soggetti coinvolti del proprio mandato professionale e delle sue implicazioni, anche quando l’intervento professionale si svolga in un contesto di controllo o di tutela disposto dall’Autorità Giudiziaria, o in forza dell’adempimento di norme di legge” (art. 17 Codice Deontologico).

Nel caso in cui l’assistente sociale abbia valutato la presenza di una situazione di bisogno in capo ad una persona che non sembra in grado di compiere le scelte migliori per il proprio benessere e per la propria sicurezza “l’assistente sociale si adopera per contrastare situazioni di violenza, trascuratezza, sfruttamento e oppressione nei confronti di persone di minore età o in condizioni di impedimento fisico, psicologico, di fragilità, anche quando esse appaiano consenzienti, fermi restando gli obblighi di segnalazione o denuncia all’autorità competente previsti dalla legge.” (art. 28 del Codice Deontologico).

Nel lavoro dell’assistente sociale è frequente trovarsi in situazioni in cui è difficile valutare se la persona compie delle scelte a favore di se stessa nel pieno della propria autodeterminazione o meno. Il Codice Deontologico, infatti, ricorda che “I dilemmi etici sono connaturati all’esercizio della professione. L’assistente sociale li individua e li affronta evidenziando i valori ed i principi in contrasto. Le scelte professionali che ne risultano sono la sintesi della valutazione delle norme, del sapere scientifico, dell’esperienza professionale e sono comunque indirizzate al rispetto della libertà, dell’autodeterminazione e a conseguire il minor svantaggio per le persone coinvolte. Il professionista orienta la propria condotta alla massima trasparenza circa le ragioni delle proprie scelte e documenta, motivandolo, il processo decisionale.”

Domanda: In una situazione in cui si sono rilevati maltrattamenti su una donna da parte del compagno e si sia accertato il fatto che il minorenne abbia assistito, a quale Procura si deve fare denuncia? È corretto farla sia alla Procura del Tribunale per i Minorenni che a quella del Tribunale ordinario? 

Risposta: È corretto fare l’invio ad entrambe essendo d’interesse di entrambe ma sotto diversi profili e spetterà poi alle due Procure coordinarsi.

Non conoscendo le specifiche del caso si suppone che il professionista abbia valutato:

  • ipotesi di pregiudizio per il minorenne (di competenza della Procura della Repubblica presso il Tribunale per i Minorenni). Si veda gli articoli 330 e successivi del Codice Civile.
  • ipotesi di reato procedibile d’ufficio commesso da persona adulta (di competenza della Procura della Repubblica presso il Tribunale Ordinario). Si veda l’articolo 331 del Codice di Procedura Penale – Denuncia da parte di pubblici ufficiali e incaricati di un pubblico servizio.

Di seguito l’articolo 28 del Codice Deontologico dell’Assistente Sociale che riguarda il tema in oggetto: “L’assistente sociale si adopera per contrastare situazioni di violenza, trascuratezza, sfruttamento e oppressione nei confronti di persone di minore età o in condizioni di impedimento fisico, psicologico, di fragilità, anche quando esse appaiano consenzienti, fermi restando gli obblighi di segnalazione o denuncia all’autorità competente previsti dalla legge”.

Domanda: Nel nostro servizio non è presente un vice responsabile e, in caso di assenza della Responsabile, viene di volta in volta incaricato un operatore/trice dell’area socio pedagogia di base. Le relazioni vengono quindi controfirmate “per incarico”. Nel caso in cui l’operatrice incaricata dovesse inoltrare all’autorità giudiziaria una propria relazione, ha due possibilità: o controfirmarsela da sola o viene fatto un secondo incarico. 

Ci siamo chiesti se questa procedura sia tutelante per le persone utenti, potendo risultare una relazione firmata da un unico operatore, senza un responsabile. Qualora l’incarico sia sufficiente a garantire la tutela, deve questo avere delle formalità (es. Ordine di Servizio)?

Risposta: All’interno di una unità operativa (settore servizi sociali, ad esempio), si possono individuare il preposto (dirigente o responsabile), il responsabile del procedimento e il responsabile del caso.

Queste figure possono coincidere in una persona ovvero essere disgiunte.

La nomina del responsabile del procedimento deve avvenire con formale atto scritto a cura del preposto (v. oltre), in difetto, in base alla l. n. 241/1990, egli, oltre ad essere, appunto, il preposto, resta anche il responsabile del procedimento.

Diversamente, il responsabile del caso può essere nominato in modo anche meno formale.

Al solito regna confusione, perché l’assistente sociale responsabile del caso, spesso, si crede anche responsabile del procedimento ma, in difetto di formale nomina, non è così.

E anche il preposto, spesso, ritiene che conferendo la responsabilità del caso conferisca al contempo anche quella del procedimento, ma anche in questo caso non è così, e per espressa previsione di legge.

Se il preposto controfirma la relazione predisposta dal responsabile del procedimento, o dal responsabile del caso, se il responsabile del procedimento non è stato nominato, altro non significa che ne avalla interamente i contenuti, e li fa propri.

In ogni caso l’atto è imputabile al preposto, perché esso, a differenza del mero responsabile del procedimento (cioè del responsabile del procedimento cui non è stato conferito, sempre con atto scritto, anche il potere di adottare il provvedimento), e del responsabile del caso, è il solo soggetto abilitato a esternare la posizione dell’amministrazione.

Ovvio che in una unità operativa (ufficio) nella quale l’assistente sociale è al contempo il preposto, il responsabile del procedimento e quello del caso, la firma è unica (e parlare di controfirmare un proprio atto è una sciocchezza colossale).

L’operatrice incaricata del caso, dunque, non può validamente, per il diritto amministrativo, inoltrare la relazione all’A.G. se non le è stato conferito il potere di esternare la posizione dell’amministrazione all’esterno ovvero se non è al contempo il preposto all’ufficio: la relazione va controfirmata, se condivisa, e se non condivisa il preposto ha il potere di intervenire spostando la competenza (con i meccanismi, sussistendo le condizioni, della sostituzione o della avocazione).

Il dubbio sul fatto che detta procedura sia tutelante o meno per l’utenza è da un lato poco comprensibile e dall’altro infondato: per il divieto di antinomie ordinamentali, se l’attività posta in essere è coerente con la disciplina normativa, non si pongono dubbi di legittimità di sorta, e poiché il codice deontologico è fonte sottordinata rispetto alla legge, il cerchio è chiuso.

L’atto con il quale il preposto assegna ad un suo sottoposto l’incarico (la responsabilità del procedimento), è un atto amministrativo motivato, che può assumere le forme di decreto, circolare, ordine di servizio ovvero istruzioni ad hoc.

L’atto di nomina può avvenire anche tramite criteri automatici (ad esempio: il preposto adotta un atto nel quale è previsto che per la tutela il responsabile di tutti i procedimenti è l’assistente sociale con l’anzianità professionale specifica maggiore, e simili), assumendo, così, la qualifica di atto amministrativo di carattere generale: in questo modo, al determinarsi di specifici presupposti, sarà noto ex ante il soggetto che assumerà la veste di responsabile del procedimento.

Domanda: Il medico dell’équipe socio-sanitaria chiede allo psicologo e all’assistente sociale di controfirmare a sua discrezione alcuni referti dai quali è emersa una positività alle sostanze stupefacenti cercate (analisi delle urine e/o gli esami del capello). Mi sono chiesta a che cosa sia utile questa controfirma e quali conseguenze ne potrebbero derivare?

Risposta: Se si tratta di un documento nel quale si compendiano valutazioni congiunte ovvero plurime, l’apposizione della firma da parte di tutti coloro che, con la propria attività professionale, hanno concorso a formarlo è del tutto naturale; viceversa, se il medico chiede ai colleghi non medici di controfirmare un proprio atto, detta controfirma appare non solo inutile ma altresì senza motivo, non potendo professionisti non medici avallare alcuna diagnosi medica.

Tale aspetto giuridico incontra anche quanto definito dal nostro Codice Deontologico all’Art. 43 “L’assistente sociale che stabilisce un rapporto di lavoro con colleghi, altri professionisti ed organizzazioni pubbliche o private definisce le proprie responsabilità, così come il proprio ambito professionale, e richiede il rispetto delle norme del Codice. Il rapporto con i colleghi e gli altri professionisti è improntato a correttezza, lealtà e spirito di collaborazione, nel rispetto delle reciproche competenze e autonomie”.

Domanda: Quali responsabilità ha il genitore e/o l’assistente sociale nelle situazioni che giungono sull’urgenza al servizio sociale riferendo di non avere un posto dove stare già dalla sera stessa? Vi sono anche obblighi e/o riferimenti giuridici in merito?

Risposta: La tutela dei beni fondamentali, tra i quali la vita e salute, è precipuo compito del Servizio sociale. Sta di fatto che la limitatezza delle risorse, latamente intese, non permette sempre una risposta rapida ed efficace anche a domande che li ineriscono.

È importante che il Servizio sociale dia prova di aver tentato di percorrere, ovvero aver proposto, tante alternative assistenziali ragionevoli, congrue e percorribili.

Nel nostro Ordinamento giuridico non sembra rinvenirsi un diritto soggettivo perfetto, quindi esigibile, all’abitazione ma, piuttosto, un diritto a che l’amministrazione crei le condizioni per soddisfare al meglio il bisogno stesso.

Va da sè che allorquando il colpevole mancato collocamento in luogo sicuro esponga la persona a danni, questi sono astrattamente risarcibili.

Domanda: In quali casi può essere disposto l’allontanamento di un minorenne dalla propria famiglia, in assenza di un parere sanitario in merito alle competenze genitoriali?

Risposta: Rispetto alla tua domanda, non vi sono casi “prestabiliti”. La scelta di procedere a un allontanamento è frutto di valutazioni discrezionali, prova ne sia, ad esempio, che l’art. 403 c.c., anche nella nuova formulazione, non evidenzia casi tassativi ma, in un certo senso, è una “norma in bianco”, vale a dire una disposizione che detta le coordinate generali di intervento, ma lascia agli operatori il prudente apprezzamento circa l’integrazione dei presupposti (vedi art. 30 del Codice Deontologico “L’assistente sociale si adopera per condividere con la persona il progetto e gli interventi che, prevedibilmente, saranno necessari nel percorso di aiuto. Il professionista può prescindere dall’acquisizione dell’assenso agli interventi nelle situazioni in cui gli stessi siano indifferibili, quando prevalgano le esigenze di protezione della persona, in forza di provvedimenti dell’Autorità Giudiziaria e in tutti gli altri casi previsti dalle norme vigenti”).

In generale possiamo dire che l’assistente sociale è tenuto alla protezione delle persone in situazione di fragilità, come previsto dagli art. 27 e 28 del Codice Deontologico:

  • Art. 27 “L’assistente sociale riconosce che la capacità di autodeterminarsi della persona può essere ridotta a causa di condizioni individuali, socio-culturali, ambientali o giuridiche. In queste situazioni, promuove le condizioni per raggiungere il miglior grado di autodeterminazione possibile e, quando ciò non sia realizzabile, si adopera per l’adeguata segnalazione all’Autorità Giudiziaria, affinché siano attivati gli opportuni interventi di protezione e di tutela”;
  • Art. 28 “L’assistente sociale si adopera per contrastare situazioni di violenza, trascuratezza, sfruttamento e oppressione nei confronti di persone di minore età o in condizioni di impedimento fisico, psicologico, di fragilità, anche quando esse appaiano consenzienti, fermi restando gli obblighi di segnalazione o denuncia all’autorità competente previsti dalla legge” .

Domanda: In ambito sanitario gli assistenti sociali che operano a contatto con gli anziani invalidi e non quali responsabilità hanno? In particolare una volta che l’ anziano è stato dimesso.

Risposta: La questione che porti apre molti scenari. In generale possiamo dire che l’assistente sociale è tenuto alla protezione delle persone in situazione di fragilità. 

In particolare, se la “dimissione” consiste nella cessazione della presa in carico, allora è evidente che un eventuale evento dannoso che dovesse accadere successivamente a ciò, ben difficilmente potrebbe essere “imputato” all’assistente sociale, in particolare quand’esso fosse originato da fatti nuovi e sopravvenuti ovvero imprevedibili alla data della cessazione della presa in carico.

Diversamente, se la “dimissione” non coincide con il termine della presa in carico, appare evidente che ben potrebbe essere rilevata, in capo all’assistente sociale, una “posizione di garanzia” giuridicamente rilevante, con tutte le conseguenti possibili responsabilità, penali, in primis, del caso (vedi art. 28 del Codice Deontologico “L’assistente sociale si adopera per contrastare situazioni di violenza, trascuratezza, sfruttamento e oppressione nei confronti di persone di minore età o in condizioni di impedimento fisico, psicologico, di fragilità, anche quando esse appaiano consenzienti, fermi restando gli obblighi di segnalazione o denuncia all’autorità competente previsti dalla legge”). 

Ogni volta che l’assistente sociale lo valuta opportuno, a seconda dei diversi aspetti della situazione, può ricercare la collaborazione di altri professionisti per lavorare in rete, come cita l’art. 16 del CD “L’assistente sociale ricerca la collaborazione di altri colleghi o altri professionisti e percorsi di supervisione professionale ogni volta che lo valuti opportuno”.

Domanda: In seguito alle disposizioni emergenziali, molte persone hanno espresso la propria autodeterminazione non acconsentendo all’obbligo vaccinale, con conseguente perdita di entrate per la sussistenza. L’assistente sociale di un ente pubblico può rispettare il vincolo del mandato istituzionale e essere di aiuto? E come può gestire la propria convinzione  personale sul tema vaccinale nel pieno rispetto delle scelte individuali dell’utente?

Risposta: In risposta alla prima domanda, il rispetto del vincolo del mandato istituzionale e di quello professionale, quindi “di aiuto”, devono tenere conto della volontà consapevolmente espressa dalle persone (vedi art. 7 del Codice Deontologico “L’assistente sociale riconosce il ruolo politico e sociale della professione e lo esercita agendo con o per conto della persona e delle comunità, entro i limiti dei principi etici della professione”).

Se quindi la scelta di non vaccinarsi preclude, ad esempio per scelta del legislatore, alcuni “sostegni”, in senso lato e generico, l’assistente sociale che lavora (in)direttamente per la pubblica amministrazione non può esimersi dall’applicare la norma, valutando sì l’applicabilità di alternative, ma senza cercare “scorciatoie” di comodo.

In generale la valutazione professionale, sulla base delle richieste e dei bisogni che vengono portati dalla persona, tiene conto della situazione complessiva della persona, indipendentemente dalle scelte e dalle convinzioni della persona stessa.

L’assistente sociale pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio è chiamato ad eseguire scrupolosamente le proprie mansioni, conformemente al dettato normativo ed eventualmente regolamentare, a prescindere dai propri convincimenti personali.

Se il mandato istituzionale risulta incompatibile o in contrasto con il corretto esercizio della professione, l’assistente sociale è tenuto/a a segnalarlo al proprio datore di lavoro. Il riferimento è all’art. 52 del CD “L’assistente sociale è tenuto a segnalare al proprio datore di lavoro, per iscritto e con puntuale motivazione, le condizioni o le direttive incompatibili con il corretto esercizio della professione, ferma restando la potestà organizzativa generale del datore di lavoro”.

Per quanto riguarda la seconda domanda, la convinzione personale dell’assistente sociale è del tutto irrilevante. Le proprie convinzioni e/o scelte personali (non solo per quanto riguarda il tema dell’obbligo vaccinale) non devono interferire con l’esercizio della professione (vedi art. 9 del CD “L’assistente sociale svolge la propria azione professionale senza fare discriminazioni e riconoscendo le differenze di età, di genere, di stato civile, di orientamento e identità sessuale, di etnia, di cittadinanza, di religione, di condizione sociale e giuridica, di ideologia politica, di funzionamento psichico o fisico, di salute e qualsiasi altra differenza che caratterizzi la persona, i gruppi o le comunità. Consapevole delle proprie convinzioni e appartenenze personali, non esprime giudizi di valore sulla persona in base alle sue caratteristiche o orientamenti e non impone il proprio sistema di valori”).

Domanda: Nel caso di un procedimento disciplinare, l’assistente sociale nel preparare memorie e controdeduzioni voleva allegare dei documenti, tra questi, due decreti, una sua relazione, una lettera a firma sua mandata alla persona che l’ha segnalata e un estratto del diario della cartella. La collega ha scritto al suo Ente chiedendo un’autorizzazione generica all’uso di questi documenti. L’Ente le ha risposto che deve fare una formale richiesta di accesso agli atti: richiesta che andrà notificata anche a chi la ha segnalata. La domanda è se la procedura indicata dal suo Ente è corretta e se sì, quali alternative suggerire alla collega per esercitare il suo diritto di difesa (il timore è la lungaggine della procedura della richiesta di accesso agli atti)?

Risposta: La posizione dell’Ente di riferimento è perfettamente legittima e conforme alla normativa. L’assistente sociale dovrà fare istanza di accesso ai documenti amministrativi e attenderne l’esito. Se non riterrà di esser soddisfatta, avrà modo di ricorrere al T.R.G.A. Trentino-Alto Adige ovvero chiedere al Collegio disciplinare procedente di acquisire i documenti direttamente presso l’Ente.

Domanda: Che peso ha, in sede giudiziaria, la registrazione del colloquio fatta a insaputa dell’assistente sociale da parte della persona assistita? L’assistente sociale riferisce che (talvolta) le registrazioni avvengono su indicazione del legale della persona e poi utilizzate in udienza. In che modo tutelarsi?

Risposta: Non c’è nulla da cui tutelarsi, atteso che la registrazione di un colloquio, eseguita da chi vi prende parte, è perfettamente legittima. Semmai quel che può essere illecito è l’uso che se ne fa in seguito, ma se la registrazione avviene per la difesa di un proprio o di un altrui diritto (ad esempio della madre per la difesa del proprio ruolo genitoriale o per la tutela del figlio) e l’uso che ne viene successivamente fatto è conforme alla legge, non c’è proprio nulla di strano o di illegittimo.

Domanda: L’assistente sociale operante all’interno di un ente pubblico può firmare dei documenti in favore di un minorenne assistito collocato in comunità socio-pedagogica (per esempio l’iscrizione ad un’attività extrascolastica, la sottoscrizione di un contratto telefonico etc)?

Risposta: No. L’assistente sociale operante all’interno di un ente pubblico non può mai firmare nulla perché il minorenne è ordinariamente affidato “all’ente” e non “all’assistente sociale del Comune di”. Quindi l’affido all’ente, persona giuridica, implica che sia il Legale rappresentante dell’ente stesso, ovvero suo delegato ovvero ancora l’apicale del servizio a poter legittimamente firmare “i documenti”. Dev’essere firmato da chi ha potere di firma in nome e per conto dell’affidatario ente pubblico.

Si tratta di un affido all’ente e l’ente agisce per il tramite delle figure in grado di rappresentarlo in modo legittimo.

 

Domanda: La responsabilità genitoriale è solo limitata ma i genitori si rifiutano di sottoscrivere qualsiasi iniziativa nell’evidente interesse del minorenne. Il Giudice evidenzia che ai sensi dell’art 5 della L. 184/83 è l’affidatario ad esercitare i poteri connessi con la responsabilità genitoriale, sicché non vi è necessità di chiedere il consenso né alla madre né al padre. E’ corretto?

Risposta: Sì l’art. 5 della l. n. 184/1983 dispone esattamente in quel senso.

 

Domanda: L’assistente sociale può sottoscrivere un contratto con terzi, ad esempio per l’acquisto di un telefonino, in favore di un ragazzo?

Risposta: Premessa: il minore degli anni diciotto è un incapace legale, anche se di fatto è dotato della capacità di discernimento che lo rende capace di intendere e di volere.

L’incapacità di agire è disposta al fine di proteggerlo contro il rischio che gli atti negoziali da lui compiuti, in assenza della necessaria maturità e dell’attitudine a curarli, possano arrecare pregiudizio ai suoi interessi.

La capacità d’agire si acquista al compimento del diciottesimo anno.

L’art. 2 c.c. “Maggiore età. Capacità di agire” si riferisce esclusivamente ai contratti e più in generale agli atti tra vivi aventi contenuto patrimoniale. La conseguenza della mancanza della capacità di agire (o della sua limitazione) è l’invalidità degli atti eventualmente conclusi dall’incapace. I contratti conclusi da soggetti incapaci d’agire sono efficaci fino a quando non interviene la pronuncia giudiziale di annullamento, che li priva di effetti retroattivamente anche nei confronti dei terzi (artt. 1425 e 1445). L’annullamento può essere domandato solo dall’incapace – o dal suo rappresentante legale – nel cui interesse è stabilito dalla legge, previa valutazione della convenienza dell’atto (art. 1441), a meno che egli non abbia con raggiri occultato la minore età (art. 1426).

Ciò detto, l’acquisto di un cellulare fatto dall’assistente sociale prevede la stipula di un contratto a suo nome, a prescindere dal fatto che poi ceda il cellulare al minorenne, il quale, banalmente, se si recasse al centro Apple e procedesse all’acquisto di un telefono, si vedrebbe probabilmente negato l’acquisto (verificata la minore età) e comunque quel contratto sarebbe annullabile.

Quindi l’assistente sociale “può” sottoscrivere un contratto “con terzi in favore di un ragazzo”, ma così facendo si obbliga personalmente, perché la firma sul contratto è la sua, e in quel caso non agisce quale rappresentante di altri.

Domanda: L’assistente sociale è stata citata come teste in un procedimento penale in cui è imputato il padre di due minorenni con provvedimento del Tribunale per i Minorenni di Trento. La proposta di convocazione è partita dall’avvocato della moglie presunta vittima di violenza. Ci si chiede se in tale circostanza sia corretto avvalersi della facoltà di non rispondere oppure se si possa motivare il legittimo impedimento a non partecipare all’udienza in quanto tale partecipazione potrebbe compromettere poi il lavoro con il padre dei minori (codice deontologico titolo 4°, articolo 36).

Risposta: L’art. 198 co. 1 c.p.p. prevede tre distinti obblighi in capo al testimone (e alle persone informate sui fatti che devono essere sentite da P.M. e P.G). Questi ha innanzitutto l’obbligo di presentarsi al giudice per deporre, nel luogo, nel giorno e nell’ora stabiliti.

A tal fine è previsto che l’atto di citazione di testimoni deve contenere, fra l’altro, «il giorno, l’ora e il luogo della comparizione e il giudice davanti al quale la persona citata deve presentarsi» (art. 142, 3° co., lett. c) e 4° co., disp. att.); i testimoni citati, poi, “devono trovarsi presenti all’inizio dell’udienza” (art. 145, 1° co., disp. att.).

Se il testimone, regolarmente citato, non si presenta senza addurre un “legittimo impedimento”, il giudice, ex  art. 133 c.p.p., può, con decreto, ordinare il suo accompagnamento coattivo a mezzo della P.G. perché adempia al dovere testimoniale e può altresì condannarlo, con ordinanza, al pagamento di una sanzione pecuniaria (da 51 a 516 euro) a favore della cassa per le ammende, nonché alle spese alle quali la mancata comparizione abbia dato causa (art. 142, 3° co., lett. e). La condanna pecuniaria ex  art. 133 è revocata con ordinanza dal giudice quando sono ritenute fondate le giustificazioni addotte dall’interessato (art. 47 disp. att.).

Se si è impossibilitati a partecipare all’udienza lo si deve comunicare al più presto possibile all’Ufficio che ha inviato la citazione. Al fine di poter opporre un legittimo impedimento deve sussistere proprio l’impossibilità a partecipare all’udienza (ad esempio: stato di malattia, vita stabile all’estero, ecc.).

Gli impedimenti che giustificano la mancata risposta alla convocazione sono sostanzialmente legati alla salute; dunque, potrà non comparire in tribunale il teste che, seppur regolarmente citato, faccia giungere alla cancelleria del tribunale (oppure all’avvocato, se citato da questi) un certificato medico che attesti l’assoluta impossibilità a poter raggiungere le aule di giustizia.

L’assistente sociale citato è un incaricato di pubblico servizio e su detta figura gravano precisi obblighi (anche riguardo alla testimonianza) che, se violati, potrebbero originare una sua (grave) responsabilità penale (e quindi anche disciplinare).

In secondo luogo, è previsto l’obbligo del testimone di attenersi alle prescrizioni dettate dal giudice per le esigenze processuali, fra le quali vi rientra senz’altro l’invito a rendere la dichiarazione d’impegno a dire la verità e a fornire le proprie generalità (art. 497, 2° co.), l’autorizzazione o il diniego di consultare, in aiuto della memoria, documenti redatti dal teste (art. 499, 5° co.), le regole di accesso all’aula di udienza e alla comunicazione con altre persone (art. 149 disp. att.).

Tuttavia, la violazione dell’obbligo del teste di non assistere all’esame delle parti e degli altri testi non è sanzionata da alcuna nullità o inutilizzabilità.

Infine, il testimone ha l’obbligo di rispondere secondo verità alle domande che gli sono rivolte; sull’adempimento di tale obbligo il testimone deve essere appositamente ammonito dal giudice, il quale, a pena di nullità, lo avverte dell’obbligo di dire la verità, e, salvo che si tratti di persona minore degli anni quattordici, lo avverte altresì delle responsabilità previste dalla legge penale per i testimoni falsi o reticenti e lo invita a rendere la seguente dichiarazione: «Consapevole della responsabilità morale e giuridica che assumo con la mia deposizione, mi impegno a dire tutta la verità e a non nascondere nulla di quanto è a mia conoscenza» (art. 497, 2° e 3° co.).

Se il testimone, deponendo davanti al giudice, tace ciò che sa o afferma il falso o nega il vero commette il delitto di “falsa testimonianza”, punito con la reclusione da due a sei anni (art. 372 c.p.).

L’art. 198, 2° co., nel codificare il privilege against self-incrimination, non specifica peraltro quali siano gli elementi idonei a giustificare il diritto al silenzio del testimone.

Dovendosi escludere che il teste, per vedersi riconoscere il proprio diritto al silenzio, debba portare a conoscenza del giudice proprio ciò che gli è consentito di non rivelare, né, d’altro canto, potendosi considerare sufficiente la sola asserzione del teste di non voler rispondere perché la risposta potrebbe portare ad una sua incriminazione, deve ritenersi che, ove non siano già emersi elementi tali da far ritenere al giudice che ricorre la fattispecie in esame, incomberà sul teste l’onere di indicare quel minimum che sia necessario e sufficiente a far intendere al giudice che l’opposizione non è né arbitraria, né pretestuosa.

Alla posizione soggettiva del teste non corrisponde, a carico di chi lo interroga, l’obbligo di informarlo che può non rispondere.

Né è vietato alle parti fare domande autoincriminanti al testimone, dato che non sempre esse sanno che la risposta porterebbe ad incriminare il testimone.

Il teste, da parte sua, è libero di rispondere; se lo fa, ha l’obbligo – penalmente sanzionato – di dire la verità.

La previsione deontologica richiamata è del tutto irrilevante: le disposizioni del Codice di procedura penale hanno ben altro valore e forza rispetto a quelle deontologiche, ed è in base a quelle che si disciplina il processo.

Domanda: Non comprendo perché la Procura della Repubblica mi ha chiesto determinate informazioni su una situazione che seguo come assistente sociale

Risposta: La Procura non è tenuta ad illustrare le motivazioni per cui chiede informazioni, se chiede determinati dati o informazioni ha i suoi motivi per farlo. Non è sindacabile come la Procura intende muoversi.

Domanda: Abbiamo ricevuto lettere anonime con minacce indirizzate all’assistente sociale. Cosa è opportuno fare come professionisti, ovvero: come è opportuno trattare tali lettere (non considerarle perché anonime?) e quale tipo di protezione possiamo chiedere o esigere da parte del nostro ente?

Risposta: Denuncia contro ignoti da presentare alla Procura della Repubblica ovvero ai Carabinieri o alla Polizia. L’ente potrebbe eventualmente presentare autonoma denuncia, tramite il proprio rappresentante legale, se ne sussistono i presupposti. Per quanto riguarda la tutela fisica degli operatori, si tratta di capire se sono state apprestate, o se sono apprestabili, adeguate condizioni di lavoro per permettere ad essi di lavorare nella massima sicurezza possibile.